Anima Perduta – Capitolo I

Primo interludio

L’esercito è già schierato, pronto a fronteggiare il nemico posizionato poco distante.
I soldati attendono solo il segnale dei propri generali per poi scagliarsi all’attacco: si scontreranno per la conquista del territorio e per la propria libertà, per la vita e per la morte, per il presente e per il proprio futuro.
Non sono persone: solo carne, sangue e metallo.
Esseri freddi e spietati in bilico tra vita e morte, ad un passo dalla gloria e dal nero baratro.
Ogni pensiero, ogni umana emozione viene soppressa, soverchiata dall’esperienza della guerra.
Rimane la violenza, l’attesa, un desiderio di vita atavico e profondo.
Inenarrabile nello scrutare temibili promesse di morte.
Non sono uomini: sono nemici.
Non sono persone: solamente carne, sangue e metallo.
L’esercito avversario appare minaccioso e funesto.
E’ certamente superiore in numero, meglio equipaggiato ed addestrato.
Forse periremo.
Forse sopravviveremo.
Sono i pensieri che si alternano nella mente dei soldati mentre si figurano violenti attacchi e pronte difese.
La tensione è palpabile.
Al mio fianco, osservo Galor, amico da sempre e compagno d’arme.
E’ teso e preoccupato.
Come tutti.
Me compreso, nonostante la maggior esperienza su questi campi di battaglia.
Cerco di distrarlo un poco e di scacciare via dal suo cuore la paura che inevitabilmente prova per la battaglia. Gli rammento chi lo attende a casa, gli ricordo le strategia, gli prometto che al termine di tutta questa merda brinderemo insieme alla vittoria.
Combatteremo assieme nella mischia.
Fianco a fianco, la mia spada e la sua spada berranno avidamente il sangue dei nemici.
Ce la faremo.

Capitolo I

Eccomi, mentre l’oscurità del sonno si fa nebbia e si dirada, lasciandomi a percorrere l’ampio cortile della casa in cui sono cresciuto, un casolare in aperta campagna con i muri in legno e mattone.
Il cielo sereno è quello di una giornata primaverile. L’edificio appare malinconicamente vuoto e privo di vita, con alcune finestre aperte al pian terreno. A quello superiore tutto invece sembra chiuso e inutilizzato da tempo.
Il colore rosato e bianco delle pareti esterne e quello verde delle scuri sono esattamente come le ricordo, anche se tutto è ancora così confuso e poco nitido ai miei occhi.
In lontananza una figura di persona china su di un catino nei pressi della fontana zampillante in cui, da piccolo, sono addirittura caduto.
Riconosco mia madre.
I capelli scuri raccolti sulla nuca, la maniche della veste arrotolate su fino ai gomiti, sempre indaffarata nelle quotidiane faccende domestiche che le riempiono le giornate. Veste abiti semplici adatti ai lavori da svolgere all’aperto, fuori casa.
L’ho sempre vista eternamente impegnata, sempre indaffarata o ad accudire me o i miei fratelli, fino a che non abbiamo raggiunto l’età per andarcene di casa. Ma nessuno di noi l’ha mai dimenticata e nel corso del tempo abbiamo sempre cercato, chi più chi meno, di ripagarla di tutto quanto ha fatto per noi.
Devo riconoscerlo: in tutti gli anni della nostra infanzia si è sacrificata molto, senza farci mancare calore e affetto, lavorando doppiamente per garantirci la sopravvivenza. Non abbiamo mai patito la fame, ma nemmeno abbiamo avuto la fortuna di vivere una vita agiata e priva di preoccupazioni.
Lei però non si è mai lamentata, anzi, ci ha sempre spronato con il suo esempio.
Talvolta piangeva, in disparte.
Sommessamente.
Pensava a mio padre, lo so, a tutte quelle promesse infrante, ai sogni devastati dall’ipocrisia della vita.
Ed ora eccola, ancora indaffarata nelle faccende a cui sempre l’ho vista dedicarsi.
Con una mano regge dei calzoni sul bordo della tavola appoggiata al catino e con l’altra strofina con forza, usando un pezzo di sapone biancastro con striature giallognole.
Mi avvicino lentamente, quasi senza far rumore per non disturbarla nella sua quiete mattutina.
Ma è solo quando, portandosi una mano al viso, scosta una ciocca dei suoi capelli neri dalla fronte che mi accorgo di quanto sia invecchiata e, soprattutto, delle lacrime che scendono a rigarle il viso.
Mi rendo conto che sta piangendo e singhiozzando mentre lava quei calzoni che riconosco essere miei.
“Cos’hai madre?”
Le chiedo allora, preoccupato.
Mi avvicino e le appoggio delicatamente una mano sulla spalla, dolcemente per non spaventarla e trasmetterle la mia presenza rassicurante.
“Sono qui”, rivelo in un sussurro.
Allora lei solleva il volto di scatto e guarda verso di me, gli occhi sbarrati e la bocca aperta e senza fiato. Poi, abbandonando di colpo ogni cosa, lasciando cadere sapone e calzoni, si porta le mani al volto.
Indietreggiando prende a piangere e urlare sempre più forte, terrorizzata.
Qualcuno allora accorre dai campi mentre io, sconcertato, rimango ad osservare senza comprendere la sua reazione.
Perché appare così sconvolta?
Perché è così atterrita?
Non mi ha riconosciuto ?
Non capisco …
La osservo, impotente e immobile al mio posto. Cade in ginocchio e piange ancora più intensamente. Una donna, abbandonata la sua mansione nell’orto poco distante, è giunta fino a lei per consolarla e sorreggerla.
Interdetto, osservo mia madre disperarsi e guardare verso di me. Nei suoi occhi scorgo la paura ed un dolore infinito.
“Non temere: sono io, madre”, cerco di rassicurarla.
Ma non appena avanzo, preoccupato ed infelice per la reazione che davvero non mi aspettavo avesse, nuovamente il buio dei sogni torna a rapirmi e ad avvolgermi con il suo manto d’oblio.
Mi abbandono ad esso, mi sento leggero e incapace di reagire.
Chiudo gli occhi.

 

Note: dopo l’intro, disponibile al seguente link, questo brano rappresenta il primo capitolo del racconto Anima Perduta disponibile in formato ebook gratuito.

Data di creazione : 30 maggio 2006
Ultima modifica : 18 aprile 2010

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