Gabbie sospese

Siamo tutti dentro, chiusi in gabbie sospese sul vuoto colorato di un mondo distante e troppo folle.
Lo scorgiamo in lontananza, di sotto. Noi invece stiamo in metalliche prigioni a misura di noi stessi, sospese ed in continuo movimento, caotico e forse privo di senso.
Quasi ingranaggi e parti di una macchina immensa ed incomprensibile ci ritroviamo a viaggiare attraverso uno spazio che appare tremendamente vuoto e sconfinato.
Un eterno crepuscolo in cui luce e tenebra si confondono assorbendo ogni sfumatura di colore.
In continuo movimento, alcune seguono orbite ellittiche, altre oscillano casualmente mentre altre ancora salgono o scendono senza sosta.
Le sbarre che le compongono appaiono larghe abbastanza perché possiamo uscire ed esporci alla paura del vuoto.
Il vuoto sottostante.
Il vuoto tra di noi.
Reggendoci con una mano, saldamente stretta ad una di quelle sbarre che ci privano della libertà, possiamo quasi uscire del tutto, sporgerci: il folle tentativo di raggiungere e toccare qualcuno dei nostri simili anch’essi imprigionati in gabbie talvolta troppo vicine a volte troppo lontane dalla nostra portata.
Ed è forte il timore di cadere per sempre e precipitare verso l’oblio apparentemente senza fondo.
Vertigine nell’esporsi a stabilire un contatto privo di certezze.
La gabbia oscilla sbilanciata, la presa si fa scivolosa.
Il rischio di cadere è ben presente. Nemmeno lo sappiamo se l’altro sia pronto ad afferrarci oppure no. Magari ci teme o guarda altrove, forse ci odia o non ci vuole. E’ un dubbio atroce, devastante per il nostro cuore. Giunge quindi la paura, l’insicurezza: e se per caso perdessimo la presa? Se rischiassimo la caduta per qualcuno che nemmeno desidera sforzarsi e tenderci la mano?
Oltre a ciò, dall’alto piovono improvvise punizioni, imprevisti tragici che rischiano di spezzare arti che si espongono, mozzando speranze e sogni di vita. Precipitano oggetti acuminati e pesi immani atti a frantumare il desiderio di contatto che ci consuma.
Qualcuno, di tanto in tanto, viene colpito e il dolore è allora insopportabile poiché vissuto nella solitudine di una gabbia irraggiungibile. Sono urla e lamenti che si propagano all’infinito, solo lontane parole a sussurrar conforto. Ancor più difficile il contatto, maggiore il rischio di precipitare.
Se venissimo colpiti si propagherebbe nel vuoto l’eco del nostro dolore a diffondere paura e timore, ad allontanare dai cuori la volontà di tentare e di rischiare. Tutto sembra convincerci a desistere, a non tentare il contatto, a non esporci inutilmente attendendo che altri si gettino nel vuoto, tendano la mano a giungano in nostro soccorso.
A raggiungerci nella gabbia in cui viviamo.
Forse, un giorno questa scenderà un poco o affiancherà qualcuno capace di rendere umana l’esistenza in questo folle sogno.
Eppure talvolta qualcuno ancora ci prova a tendere la mano, a rischiare il vuoto e la paura di perdere se stesso. Ce lo rammenta il cielo che da lassù, immobile, continua a osservare il nostro moto.
Qualcuno ancora ci crede che sia tutta un’illusione, una prova per l’umana capacità di vincere la paura.
Esporsi è un grande rischio…
Eppure quando riesce il contatto, quando due anime s’incontrano, quando due di esse si sfiorano appena o permettono una fugace carezza, quando riesce la speranza allora un legame si forma. Sono reazioni chimiche e ingranaggi arcani che si accendono, qualcosa di insensato accade: ed è allora un colore intenso che nel buio diviene luce, sfavillante nel buio di quel mondo sospeso sopra un altro mondo.
Grazie a questi folli gesti d’amore e d’incoscienza, un piccolo miracolo risplende in quel cielo sospeso, fatto di gabbie, anime e ingranaggi freddi.
Dal mondo sottostante, lontano anni luce ed eternità di speranze, con lo sguardo volto in su qualcuno allora potrà scorgere nel cielo la nascita di una stella o i fasci colorati di un fugace arcobaleno.

Data di creazione : 22 marzo 2006

Ultima modifica : 30 marzo 2008

Nota: la foto utilizzata è relativa a un’installazione artistica presso Sydney

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