Vuoto di Luce – Capitolo 3

Talvolta è nel buio dei nostri errori
che la verità si manifesta con maggior intensità
una luce abbacinante che ci guida
sulla strada della nostra fragilità.

Capitolo 3 – Serata etilica

26.06.A905

 

Aveva le braccia in alto, i polsi bloccati da magiche catene di freddo metallo alla parete di uno dei palazzi del vicolo. Con una mano, l’uomo cercava di tapparle la bocca così che non urlasse attirando l’attenzione di eventuali passanti. Con la destra invece, dopo averlo guidato dentro di lei, le reggeva la gamba sinistra mentre la prendeva aumentando la foga e l’intensità delle spinte. Helge l’aveva conosciuta poco prima, all’interno del Nightwish pub, ma ora ricordava a malapena come si chiamasse: Ko… Kor… o qualcosa del genere.
Era troppo ubriaco per ricordare alla perfezione simili particolari. Lunghi capelli corvini, occhi ammalianti, corpo giovane e sodo, dalle forme perfette e invitanti: entrando nel locale la ragazza aveva rapito gli sguardi di tutti. Assolutamente consapevole della propria avvenenza aveva civettato con alcuni clienti per poi giungere al tavolo di Helge, incuriosita. Qualche drink più tardi l’aveva convinto a uscire, strusciandosi, mordendolo dolcemente sul collo e, una volta nel vicolo, si erano avvinghiati l’uno all’altra fino a che lui aveva assecondato totalmente il suo gioco.
Pensieri e concetti giungevano a intermittenza, lampadine che si accendevano per poi tornare a spegnersi inesorabilmente nel buio della sua mente obnubilata. Non era lucido del tutto, altrimenti si sarebbe posto maggiori riguardi e, soprattutto, quesiti: Come mai una ragazza così bella dovrebbe scegliere un posto talmente squallido per prenderlo? Perché non in un motel? O magari a casa mia? O sua?
La sensualità che proveniva da Korsheed, oltre all’alcol, avevano stregato Helge, totalmente in balia degli eventi. E di lei.
Gli istinti e il desiderio, soltanto quelli, lo guidavano in quel momento. Eppure, malgrado lo stato in cui versava, inconsciamente, aveva creato quelle catene di metallo e luce per bloccarla, soffocando ogni sua possibile ribellione. Non era giusto, non si addicevano a quelle di un guerriero della Luce, ma adesso le sue azioni erano entità indipendenti dalla sua volontà, ribelli.
Helge non comprendeva nemmeno cosa stesse accadendo, sentiva solo il corpo di lei, le sue rotondità e il contatto con la femminilità della donna. Confuso, rapito dalla situazione, lasciava che fossero solamente i movimenti fisici a guidare ogni sua percezione. La razionalità ridotta a una voce lontana, ignorabile, che di tanto in tanto riemergeva dalle profondità per ammonirlo. Forse addirittura le catene, circondate da lievi scie di energia violacea, erano già lì, forse lui non aveva fatto proprio niente. Però non gli importava, non ora. Contavano solo le sensazioni che provava, la pelle morbida di lei, i brividi di piacere a ogni spinta. Che si trattasse di violenza o meno, che stesse accadendo per davvero oppure no, lei assecondava le sue movenze, gemendo di piacere, attirandolo a sé con la gamba leggermente piegata all’altezza del bacino e che Helge le reggeva graffiandola con le dita per l’impeto e la foga del rapporto. Lei lo incitava, voleva di più. Di più. Di più!
Anche lei aveva bevuto, senza dubbio oltre il suo solito. E non avrebbe certamente urlato o chiesto aiuto per quanto stava accadendo come invece temeva Helge.
Si trovavano in quel vicolo perché lei, Korsheed, lo voleva.
L’uomo, da parte sua, era confuso e non riusciva a rammentare chi dei due avesse effettivamente fatto la prima mossa. La osservava gemere, la bocca spalancata e muta, le palpebre abbassate e il volto appena inclinato verso l’alto.
Se è uscita nel vicolo con me vuol dire che in fondo ci sta…
Questa la giustificazione che si diede, un valium per i dubbi che lo attanagliavano e che, seppure distante, la coscienza gli poneva. Quelle catene fiocamente illuminate d’energia violacea avrebbero dovuto preoccuparla un poco, invece la ragazza non aveva manifestato la minima reazione. Né sorpresa, né stupore, né timore. Nessuna emozione. Forse non era così lucida per prestare attenzione alla cosa, forse le piaceva così, forse non voleva pensarci.
Helge lasciò che i propri pensieri si annullassero dopo aver messo a tacere i timori che serbava e che tornavano a confonderlo come un’eco evanescente. Rimase solo il ritmico movimento del bacino, su, giù, su, giù, entrambi in balia dei propri corpi ansanti, incapaci di chiedersi se qualcuno li avrebbe visti o se ciò che stavano facendo avrebbe potuto avere delle conseguenze.
Ogni pensiero, ogni ragionamento diveniva via via alieno e distante. C’erano solo i loro corpi mentre le spinte dell’uomo si facevano sempre più brevi e urgenti. Infine, rapido, lo estrasse. E venne, in preda all’estasi dell’orgasmo, liberandosi sull’inguine e sulla coscia di lei.
Poi le si appoggiò sul seno, giusto qualche istante per riprendersi. Sul volto di Korsheed un leggero sorriso mentre cercava di trarlo a sé, accogliendolo per quanto le riuscisse a causa delle catene che la bloccavano. Lui, soddisfatto e confuso, incerto sulle proprie gambe, dopo averla guardata come se la vedesse per la prima volta solo in quel momento, rimase per un attimo in silenzio, stordito dalla sua bellezza e al suo tocco ammaliante. Poi si ritrasse e si ricompose. Gli ci volle un poco per riallacciarsi i pantaloni anche a causa del proprio equilibrio che, ora, non sembrava più così efficace nel sostenerlo.
Con passi incerti si allontanò da lei, come se ora la temesse, quasi fosse un essere spregevole da cui fuggire.
Cosa sto facendo?
La sua coscienza si stava riprendendo a poco a poco. La mente lo interrogava senza ottenere risposta, domande come gocce che precipitavano in un pozzo di cui non si scorgeva il fondo. Come se quanto appena vissuto non lo riguardasse minimamente, Helge si incamminò per andarsene.
La testa gli pulsava; si sentiva esausto, sfinito ma appagato. Si appoggiò a una delle pareti del vicolo e solo allora si rese conto degli strilli e delle imprecazionie della donna: l’aveva lasciata mezza nuda con i polsi ancora incatenati alla parete.
« Toglimele, ho detto! Toglimele ora! », ripeteva arrabbiata.
Ma nonostante le sue grida, Helge sembrava avvedersene soltanto ora. Con un pensiero tentò di sciogliere l’incantesimo che bloccava Korsheed: si concentrò ma sembrò non accadere nulla alle catene. La delusione si dipinse sul volto giovane di Helge mentre osservava con intensità le proprie dita, tastandosi come se notasse solo adesso la presenza di quelle propaggini prensili al termine delle braccia.
Frustrato e perplesso si arrese all’evidenza: la magia non era tornata a essere una forza ubbidiente al suo volere. Non aveva alcun controllo su quella ferraglia luminescente.
Forse mi sono immaginato tutto quanto…
Poco dopo però le braccia della ragazza tornarono libere, lasciando Helge ancor più confuso.
Sono stato io?, si guardò i palmi e le dita stupefatto e incredulo
Quindi, fissando la donna, quesiti cui fino a quel momento aveva procrastinato si affacciarono alla porta della sua razionalità.
Chi è quella donna? Cosa diamine sto facendo?
Subito però, forse per vergogna o per inconscio disinteresse, si allontanò in una direzione a caso, barcollando. La prospettiva di tornare da lei, di aiutarla a ricomporsi e pulirsi, o anche semplicemente di parlarle, gli era sconosciuta. I suoi passi lo portavano altrove, come se il suo subconscio volesse frapporre la maggior distanza possibile tra lui e Korsheed, da quel vicolo, da ciò che aveva fatto.
Per un attimo, una lampadina baluginò nel buio della confusione mentale di Helge: Ho tentato di violentarla? L’ho violentata?
Scosse la testa.
Come mi salta in mente una simile idiozia? È stata lei a chiedermi di uscire. Cosa cazzo stavo combinando? E quelle catene?
Si maledisse e si diede dell’idiota ma non tornò indietro.
Sebbene non si rendesse pienamente conto di quanto appena accaduto, ringraziò per il fatto che pure Korsheed non fosse del tutto lucida, altrimenti di certo avrebbe passato dei guai. Una vigliacca razionalità maschilista pareva essere tornata ad abitare nel suo cranio. Ma non era solo della lucidità che aveva bisogno in quel momento, necessitava di riposare e di fare ordine.
Devo tornare all’auto: il pensiero si fece largo nella sua mente offuscata dall’alcol e lo spinse con maggior decisione verso la fine del vicolo, in direzione della strada.
Dopo aver sputato a terra, resistendo al senso di nausea che solo ora avvertiva, cercò di individuare il proprio veicolo parcheggiato chissà dove. Ai margini della strada numerose autovetture attendevano fedeli il ritorno dei proprietari, uomini e donne di tutte le età impegnati a dar prova d’esistere nei locali notturni della zona
A fatica, situata in un mondo confuso e dai contorni incerti, in cui i colori delle insegne luminose divenivano chiazze che si allungavano e si accorciavano a seconda di strane leggi fisiche, Helge riuscì a individuare la sua berlina grigio metallizzato.
Non è normale. No, non è normale affatto …
Di certo aveva bevuto molto ma lo stato in cui versava la sua mente gli fece sospettare che qualcosa stesse alterando le sue percezioni, ma la coscienza di questo pensiero fu solamente lo scoppio di un petardo in un contesto di bombardamenti globali.
Poco dopo, incespicò e si ritrovò a terra, carponi. Nel risollevarsi, i fari di un veicolo di passaggio attirarono la sua attenzione e dispersero le sue momentanee preoccupazioni.
Alzatosi, tornò a osservare il proprio veicolo: nei paraggi dell’auto grigio metallizzato non c’era nessuno e questo lo tranquillizzò. Gli altri partecipanti alla vita notturna di Midlas erano ancora impegnati a bere o a ballare. Quelli che passeggiavano o vagavano per i marciapiedi erano invece troppo distratti per far caso a lui. Qualunque cosa gli stesse accadendo non gli importava: voglio solo tornare a casa.
E sperava di riuscirci andandosene senza di lui, Roghak, il suo personal trainer per la strada del Vuoto.
In base a quel che ricordava, il demone, suo compagno di bevute nonché coinquilino più o meno gradito da alcune settimane, era ancora all’interno del Nightwish pub, lo stesso locale in cui aveva conosciuto la ragazza che, presumibilmente, adesso si stava rivestendo dall’altra parte del vicolo.
Chissà, magari le è anche piaciuto.
Helge mosse un altro passo in direzione della propria vettura.
O piuttosto si starà domandando come ha potuto finire così in basso …
Ancora un altro.
… a scopare in un vicolo con uno sfigato come me …
Per quanto fosse misera come constatazione, nonostante il suo comportamento fosse stato egoistico e spregevole, lui pensava che almeno se lo stesse chiedendo.
Barcollando, continuò ad avvicinarsi all’auto e, dopo ancora qualche metro di cammino incerto, finalmente la raggiunse. Armeggiò per un poco con le chiavi osservandole da una distanza remota, quasi le braccia si fossero allungate nel corso della serata.
No, decisamente, questa sensazione non è normale.
Tutto era al di là degli effetti dell’alcol: a tratti si sentiva abbastanza lucido, un istante deopo era come se il cervello se ne fosse andato a svernare in qualche isola tropicale e che guidasse il suo corpo mediante un telecomando a distanza, e neanche troppo efficace.
Al terzo tentativo riuscì a infilarle nella serratura della portiera; finalmente si lasciò cadere, sfinito, sul sedile del conducente.
Subito non accese l’auto. Ci pensò su, osservando il cruscotto con una serietà estrema, con l’intensità di chi decifra i segni di una scrittura antica e mai analizzata in precedenza. I numeri erano rune, lance in mano a faraoni miniaturizzati le lancette. Il volante poi sembrava una coppia di serpenti che si mordevano la coda a vicenda. Ne temeva il contatto ma nell’arco di interminabili silenzi di vuoto giunse alla conclusione che voleva andarsene, subito.
Scosse la testa nel tentativo di allontanare da sé quella confusione mentale di cui era prigioniero. Voleva spegnere tutto e dimenticarsi di quanto era accaduto. E poi stare solo, senza quell’invadente presenza che da giorni …
« Ehi bello, non vorrai mica andartene senza di me? »
Roghak se ne stava con un braccio appoggiato alla portiera semi aperta dell’auto, sorridente.
Quando è arrivato? Non l’ho nemmeno percepito avvicinarsi.
Accanto al veicolo, il demone lo osservava sorridente: vestiva un lungo impermeabile di pelle nera sopra un completo perfettamente bianco su cui spiccava una cravatta a righe di colore scuro. Un paio di scarpe in pelle nera e degli eleganti guanti dello stesso materiale e colore completavano il suo abbigliamento. Aveva capelli scuri pettinati all’indietro, una faccia pulita e degli occhi magnetici di un azzurro intenso e irreale. Malgrado fosse di bell’aspetto, la sua presenza sfuggiva ai più e diveniva solo una fugace comparsa nei ricordi delle persone che avevano la sfortuna di incontrarlo.
L’apostolo del male guardava ad Helge con sinistro divertimento; poi, mentre lo sollevava di peso dal posto del guidatore, si offriva di riaccompagnarlo a casa. Che, da qualche tempo, era anche la sua.
Helge cercò di controbattere ma le forze e la volontà non gli permisero di organizzare una benché minima forma di difesa a quello strano atteggiamento di altruismo palesato dal demone.
« Non vorrai mica metterti al volante in queste condizioni? Dai, non fare tante storie e lascia guidare me. Ok? »
Gli prese un braccio, lo estrasse dall’auto e lo condusse fino al lato del passeggero, sorreggendolo; quindi lo adagiò sul sedile e chiuse la portiera incurante delle lamentele bofonchiate dal guerriero della Luce.
Seduto al volante, il demone avviò l’auto. Helge sonnecchiava accanto a lui, con la testa collocata tra il sedile e il finestrino, con solamente la folta capigliatura castana a fargli da cuscino.
Guidando, mantenne una velocità costante, appena al di sopra del limite consentito dalla legge. Sintonizzò l’autoradio e cominciò a tenere il tempo tamburellando le dita sul volante al ritmo delle note della canzone che trasmettevano a quell’ora.

Aspettando,
nella tranquillità della desolazione,
cerco di spezzare
questo circolo di confusione.

Dormendo,
nella profondità dell’isolamento,
cerco di svegliarmi
da questo sogno giornaliero illusorio.

Come posso sentirmi abbandonato perfino quando il mondo
mi circonda.
Come posso mordere la mano che nutre gli estranei
attorno a me.
Come posso conoscere così tanto,
certamente non conoscerò mai tutti quanti.  (1)

Stavano percorrendo una strada secondaria che si snodava tra i quartieri periferici di Midlas quando, a un tratto, qualcosa attirò l’attenzione del demone che smise all’istante il proprio monologo di rimprovero all’amico per l’evidente abuso di alcol. A tratti cosciente, Helge ascoltava le parole di Roghak senza controbattere. D’altronde, il demone non poteva negare che in quel locale, a bere, ce l’avesse portato lui stesso. E, certo, pure l’aveva spinto e lasciato fare; ma questo era un altro aspetto della questione.
Al Nightwish pub lui pure se l’era spassata, svagandosi dalla quotidiana monotonia, ma come suo solito aveva evitato l’uso di alcolici: ci teneva alla salute e non sopportava di ingerire sostanze che potessero nuocere al proprio fisico, sia che si trattasse di birra o di cocktail sia che si trattasse di quelle patate oleose e salate oltremodo che aveva visto ingurgitare dal suo compagno d’avventure adagiato lì a fianco.
Osservandolo per qualche istante, Roghak si domandò se il guerriero della Luce l’avesse ascoltato mentre gli rammentava che non serviva a niente lasciarsi andare così e cercare risposte nell’alcol. Comportamenti del genere erano tipici degli infimi umani e non si addicevano a esseri superiori come demoni e servitori della Luce.
In ogni caso mangiare qualcosa avrebbe giovato ad Helge, perciò il demone gli chiese se gli andava di addentare un panino. L’altro bofonchiò una risposta in una qualche lingua sconosciuta. Constatando il grado di annichilimento in cui versava, a Roghak venne un’idea che lo fece sorridere dipingendogli in volto un’espressione che poteva suggerire al contempo ingenuo divertimento o astuzia crudele.
La serata non era ancora conclusa e tanto valeva seminare ancora un po’ di Vuoto. Dopo i suggerimenti che aveva dispensato agli altri avventori del pub, una vaga induzione al male effettuata solo verbalmente, sulla base della personale storia di ciascuno dei ragazzi con cui aveva avuto modo di esercitare il suo influsso, forse c’era l’occasione per creare dell’altro scompiglio.
Era un demone, dopotutto, un devoto servitore del male, affabile ingannatore e seducente corruttore, certamente convincente nell’instillare dubbi, ansie e cupi pensieri nel cuore del prossimo.
L’auto si fermò a qualche metro dal chiosco bianco situato a margine della strada e, dopo aver verificato le condizioni del proprio passeggero, praticamente in dormiveglia, capace solo di esprimersi a monosillabi, Roghak scese per dirigersi verso l’ambulante.
Al banco vi erano due giovani dall’aria sfatta che si gustavano il proprio hamburger con ketchup, peperoni e cipolle.
Quando lo videro, abbigliato di tutto punto come un manager rampante si scambiarono un’occhiata di intesa.
Il demone li ignorò, si avvicinò al bancone quindi estrasse il portafoglio mettendo in bella mostra le banconote che esso conteneva. Catalizzò all’istante l’attenzione dei presenti pronti a prodigarsi per guadagnare qualche soldo extra.
Si presentò loro con il nome di Gebwein Malilis, una rispettabile persona qualunque. Lo sguardo di Roghak era gelido e il tono della voce deciso e categorico: non avrebbero potuto rifiutargli un favore poichè, adesso, era uno di loro, un volto che, a causa dei poteri demoniaci a cui attingeva, avevano assimilato a quello di un amico o di un familiare.
Qualche istante dopo, i due ragazzi e il padrone del chiosco erano diretti verso l’auto parcheggiata poco distante. Helge percepì la portiera dell’auto che si apriva, l’aria fresca della notte che lo baciava in fronte con labbra di tenebra e due mani rudi che lo afferravano e lo estraevano a forza dal veicolo. Rinvenne all’istante, conscio ma incapace di reagire. Subì quasi senza vederlo il pugno che gli arrivò dritto all’addome, piegandosi su se stesso, senza fiato e confuso.
I tre uomini presero a picchiarlo con violenza irrazionale, pugni e calci a veicolare un odio furibondo che Roghak aveva suscitato in loro mentre, poco distante, assisteva alla scena sorseggiando placidamente un the alla pesca.

 

Note: Estratto dal libro “Vuoto di Luce” pubblicato con YouCanPrint nel 2014, disponibile sia in formato cartaceo che in versione ebook

(1) Dalla canzone “Misunderstood” dei Dream Theater

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