La fermata del 15

Poco distante dal municipio di Metropolis, Clark era appena sceso dalla corriera e, nonostante il ritardo, sperava di essere ancora in tempo per prendere al volo l’autobus che l’avrebbe portato nei pressi dalla sede del Daily Planet, il quotidiano per cui lavorava.
La giornata non prometteva niente di buono vista la difficoltà che aveva avuto nell’alzarsi qualche ora prima.
Si sentiva esausto: alcuni imprevisti notturni l’avevano tenuto impegnato e aveva dormito meno del necessario.
Come se non fosse già abbastanza stanco e stressato di suo, tra l’altro.
Al semaforo attese il verde per attraversare assieme ad altri che, come lui, si muovevano tra le vie della città diretti verso casa oppure verso le proprie occupazioni giornaliere.
Avanzava di malavoglia, poco desideroso di andare al lavoro, la mente occupata da altri pensieri.
Non era certo un buon giorno.
Anzi, a dirla tutta, aveva la giornata storta e il ritardo della corriera su cui viaggiava – a causa della congestione del traffico per dubbi e forse insensati lavori di manutenzione stradale – di certo non l’aveva aiutato a ritrovare il buon umore.
Tanto più che non era riuscito a dormicchiare come sperava, un’impresa già di per sé per via dei sussulti della corriera, ma quel giorno oltremodo ostacolata del continuo parlottare di due giovani studentesse sedute dietro di lui. In ansia e preoccupate a causa dell’imminente esame che avrebbero dovuto sostenere non avevano smesso un attimo di confabulare tra loro.
Aveva sperato invano che la smettessero, che si mettessero a leggere o ultimare i bigliettini che – garantivano loro – mai e poi mai avrebbero usato … ma così non era stato. Non gliene fregava nulla delle loro preoccupazioni ma non aveva nemmeno il diritto di metterle a tacere solo perché aveva la luna di traverso. O perché aveva tantissimo sonno.
E ad aggiungersi alla frizzante mattinata, poi, quei due messaggi giunti al cellulare.
Uno da parte del suo collaboratore: la sua richiesta non era stata approvata.
Di conseguenza, l’uniforme che aveva doveva bastargli ancora per qualche mese di “lavoro”. Ovviamente non era un vero e proprio lavoro, un impegno retribuito cioè, tuttavia sperava che almeno gli fossero concessi degli indumenti più moderni, comodi e … decorosi. Al diavolo, decenti! Sì, perché nonostante l’abitudine a indossarlo in fondo ancora si vergognava ad andarsene in giro con quella frivola uniforme azzurra e rossa.
E invece niente, ancora un rifiuto, la negazione di un misero favore.
A lui poi! A lui che era sempre così disponibile con tutti, pronto a sacrificarsi e a aiutare senza mai chiedere nulla in cambio!
L’altro messaggio poi, quello l’aveva fatto star male veramente. Come se fosse l’essere più spregevole ed egoista sulla faccia della Terra.
Era da parte di Lois…
Anche lei ci si metteva a rovinargli la giornata. Era arrabbiata, offesa e delusa per via del suo comportamento. Esigeva spiegazioni che purtroppo non poteva offrirle e una maggior presenza impossibile, per lui, da garantirle.
Al contempo non poteva nemmeno dirle la verità su come passava certe notti…
Poteva capirla, comprendere la sua gelosia e preoccupazione ma d’altronde cosa poteva farci? Era fatto così.
E poi non l’aveva chiesto lui quell’altro “ruolo” che viveva nei ritagli di tempo. “Ruolo”. Clark sorrise amaramente al pensiero di chiamarlo così, quasi a sminuirlo e a negare che in realtà era quello era il suo vero io.
Ma d’altra parte aveva portato così tanta pazienza e sopportato così tante scenate che in certi periodi non ce la faceva proprio più a starla a sentire e a litigare con lei. Ancora.
Avrebbe voluto dirle la verità, certo.
Ma semplicemente non poteva.
Chissà come avrebbe reagito!
Chissà cosa sarebbe accaduto alle loro vite!
Nel frattempo il semaforo era scattato sul verde, e lui stava attraversando la strada sovrappensiero.
In fondo l’amava e non l’avrebbe lasc..
Si accorse allora che l’autobus che doveva prendere era già arrivato alla fermata. Dopo aver fatto scendere e poi salire alcuni passeggeri era quindi ripartito e ora sostava al semaforo dell’incrocio.
Non poteva perderlo: già la giornata era nata male, se poi fosse anche giunto in ritardo al lavoro…
No, non doveva nemmeno pensarci!
Al contempo però voleva essere corretto e comportarsi da bravo cittadino qualunque.
Facendo bene attenzione alle macchine, alle moto e alle bici che in quel momento sfrecciavano sulla strada di fronte a lui, approfittando del rosso che bloccava l’autobus, attraversò e si avvicinò al mezzo pubblico.
Bussò delicatamente alla porta chiedendo di poter salire.
L’autista fece finta di non notarlo.
E questo incrinò ulteriormente il suo umore non così particolarmente gioviale e tollerante quel giorno.
Ugualmente sorrise conciliante.
Forse l’autista era in vena di scherzare ma lui di certo no. Era arrivato in ritardo un po’ troppo spesso ultimamente ed era stato pure richiamato per questo.
Quindi ribussò e richiese di poter salire, il privilegio di ammassarsi con gli altri pendolari deportati al lavoro in città.
L’autista lo osservò distaccato. Bofonchiò qualcosa: non voleva proprio farlo salire!
Clark iniziava ad innervosirsi.
Uno si fa in quattro per gli altri, rinuncia al sonno, alla carriera, sacrifica se stesso e il proprio amore per salvare il mondo di tanto in tanto e questo è quello che ottiene?
La negazione di un misero favore?
Estrasse l’abbonamento dal portafoglio e lo sventolò dietro il vetro della porta del veicolo.
L’autista fece di no con la testa, irremovibile nella sua professionalità, e proferì qualche altra parola, di certo non era né un complimento né un elogio.
Clark comprese che lo stava rimproverando di essere in ritardo, fuori posto, non in linea con le regole dettate dal sistema.
La fermata era più indietro.
Avrebbe dovuto essere lì, prima.
Adesso doveva aspettare il prossimo autobus in arrivo.
Iniziò a scaldarsi.
Un favore.
Un semplice, misero, banale favore in una giornata storta era così impossibile da ottenere?
Cosa costa a questi miseri umani del caspita farmi un favore una volta tanto che lo chiedo io?
Non me lo merito, forse?
Bussò di nuovo. Senza rendersene conto questa volta ci mise un po’ più di forza rispetto a prima. Era la rabbia e la frustrazione che si stavano impadronendo di lui. Magari non ne valeva la pena ma quel mattino non gliene importava nulla. Affatto.
L’autobus prese ad ondeggiare paurosamente.
Lo stupore si accese negli occhi dei passeggeri che, imparziali e indifferenti, stavano osservando lo scambio tra l’autista ed un uomo distinto, ben pettinato e con gli occhiali.
Sebbene un po’ sorpreso per quelle improvvise oscillazioni del mezzo, nuovamente l’autista negò il favore, innervosito a sua volta dalla reazione di quello scocciatore. Lanciava furtive occhiate al semaforo: se solo il verde fosse scattato si sarebbe tolto da quella situazione.
Era imbarazzante e per di più iniziava a preoccuparsi: il movimento dell’autobus di poco prima era strano e sospetto.
Ma in ogni caso non cambiò decisione e, con rapidi gesti della mano, indicò a quello scocciatore la fermata poche decine di metri più indietro: era lì che doveva andare e attendere l’autobus.
Il prossimo.
Era troppo.
In un qualsiasi altro giorno della sua vita Clark avrebbe reagito pacatamente. Con garbo. Con rassegnazione, anche. Se ne sarebbe stato buono e, umile, avrebbe camminato fino alla fermata. Avrebbe atteso l’arrivo dell’autobus successivo e sarebbe arrivato in ritardo al lavoro.
Peccato che quello non fosse un giorno qualsiasi ma una dannata giornata “no”, una di quelle giornate in cui anche il più mite degli agnellini ha il diritto di arrabbiarsi e di prendere a badilate sulle gengive orsi e leoni. Alle conseguenze, avrebbe pensato poi.
Per cui Clark reagì.
“Bene! D’accordo!” disse rivolgendosi all’autista che credeva di averla spuntata con quello scocciatore occhialuto. Già sorrideva mentre lo osservava spostarsi.
Ma si sbagliava.
L’uomo poggiò le mani sul veicolo e iniziò a spingerlo indietro.
Non gliene fregava più niente.
Ne aveva abbastanza di quello stupido umano che gli stava negando un favore.
Che ne sapeva lui della sua vita?
Che ne sapeva lui che probabilmente era ancora vivo solo perché “questo simpatico abbonato” si era fatto un mazzo tanto a combattere i nemici dell’umanità?
Che ne sapeva lui che quel giorno non avrebbe dovuto negargli un misero favore?
D’altronde, aprirgli gli sarebbe costato molto meno.
Alla fin fine Clark voleva solo salire in quel dannato autobus e starsene tranquillo, raggiungere il suo posto di lavoro come tutti gli altri.
Semplicemente un favore, un piccolo semplice favore in cambio del suo impegno speso a difesa della Terra a scapito della propria felicità e del proprio tempo.
L’autobus quindi iniziò a muoversi all’indietro tra lo stupore misto a paura dei suoi occupanti.
Le auto, incolonnate dietro al pachidermico mezzo pubblico color arancio, iniziarono a suonare e a spostarsi per non venir schiacciate o travolte.
Il conducente cercò di frenare con maggior forza, di contrastare quell’inesorabile spostamento all’indietro. Istintivamente cominciò a suonare il clacson, come se questo potesse risolvere qualcosa.
Incredulo osservava l’uomo che, senza fatica, spostava tonnellate e tonnellate di lamiera, persone e motori senza batter ciglio.
Le ruote iniziarono a stridere e il motore sembrava quasi impazzire, impotente di fronte alla forza di quel misterioso individuo.
Non c’era verso di riuscire a contrastare lo spostamento dell’intero veicolo!
Qualche secondo dopo l’autobus era indietreggiato giusto di qualche decina di metri: nuovamente si trovava alla fermata presso la quale attendevano anche altri fruitori del servizio di trasporto umano stupefatti per lo spettacolo a cui avevano assistito.
Tutti apparivano meravigliati se non addirittura sconvolti dalla disumana potenza muscolare dimostrata da quella persona che, ai loro occhi, appariva come un insignificante uomo medio. Uno come tanti, senza arte né parte.
In molti erano rimasti come pietrificati e con la bocca spalancata tra il caos dei clacson e le imprecazioni dei veicoli in coda.
Poi il veicolo si fermò e nuovamente Clark bussò alla porta dell’autobus.
Era serio. Tremendamente serio.
L’autista, tremante, questa volta gli aprì all’istante.
“Buongiorno” lo salutò freddamente mentre quest’ultimo, scioccato, annuiva col capo, in silenzio.
Senza proferire parola Clark andò ad accomodarsi su uno dei posti che, inspiegabilmente, si liberò non appena si avvicinò.
Gli occhi di tutti puntati addosso.
L’autista era immobile.
Come l’autobus.
Aveva paura ed era comprensibile dopo quel che era accaduto.
“Ehi!” gli disse allora il nuovo passeggero “Avrei un po’ di fretta per cui…”
“Sissignore” affermò l’uomo e subito il veicolo riprese la sua marcia a una velocità stranamente più sostenuta rispetto a quella abituale.
Quel giorno, Clark, arrivò in orario al lavoro.
Almeno quello…
A tutto il resto avrebbe pensato dopo.
Alla sua adorata Lois, al suo costume azzurro e rosso che invano aveva cercato di farsi sostituire e, infine, alla sua missione di indomito difensore dell’umanità nei panni di Superman.

Data di creazione : 25 maggio 2006

Ultima modifica : 04 maggio 2022

Note: Il testo che segue vuole essere (ebbene sì, scrivo anche motivi frivoli e banali) una mia sorta di rivincita personale per un favore non concesso da un autista di autobus. Al momento, per andare al lavoro, prendo una corriera e successivamente un autobus, di solito il 15 ma anche il 7 può andar bene per raggiungere via Vigonovese dal piazzale Stanga di Padova.
E il 25 maggio mi è accaduto, come altre volte tra l’altro, di arrivare in ritardo alla fermata dell’autobus e questo era già bello che passato ma fermo in coda al semaforo poco distante.
Quindi sono andato a chiedere di salire lo stesso ma l’autista non mi ha ritenuto degno di tale favore.
Da questo fatto (lo so, sono un bambino!!!) ho ideato quanto proposto chiedendomi se però, al posto mio, ci fosse stato qualcun altro…

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