Oro verde

Mia madre alzò gli occhi a guardare le stelle. Ce n’erano tante lassù. Le tremava leggermente la mano mentre ne sceglieva una. Puntò un dito verso il firmamento: la sua intenzione iniziale era quella di indicarci un corpo celeste per completare la favola che, come spesso accadeva nelle calde serate estive, raccontava a me e a mia sorella.
Ma ora aveva intravisto qualcosa, un baluginio sospetto e un innaturale movimento delle nubi sparse come stanchi animali al pascolo nella sconfinata prateria scura del cielo notturno. Scrutò con più attenzione e, colpiti dal suo silenzio, pure io e mia sorella volgemmo il capo all’insù, alla ricerca della stella fatata verso la quale, nella favola di quella sera, il drago rosso del coraggio aveva intrapreso il suo viaggio millenario. Scorgemmo invece una strana sagoma luminosa che pioveva verso terra, assomigliava a una di quelle comete che sul finire dell’estate si è soliti avvistare. Ma a differenza di quelle vere, che scomparivano all’istante, bruciando tutta la loro esistenza al suono silenzioso dei nostri desideri, quella verso cui convergevano i nostri sguardi non stava svanendo affatto. Attorno ad essa si erano invece condensati i gas della nostra atmosfera tanto che, mano a mano che proseguiva verso la superficie del nostro pianeta, la luce che emetteva mutava colore, ora più bianca e azzurrognola, ora più giallognola o rossastra. Anche le correnti aeree e le nubi reagirono alla sua presenza, vorticando in modo sinistro, come falene attirate dall’affascinante luminosità che quel sospetto corpo celeste dispensava.
Mentre lo strano meteorite scendeva, la sua velocità diminuiva tanto che attirò l’attenzione anche dei miei vicini e di tutti quelli che abitavano nel mio quartiere. Se non della città intera.
Il rumore che produceva sembrava simile al rombo dei tuoni nei temporali più violenti, solamente che questa volta si trattava di un rimbombo prolungato e basso, che non dava l’impressione di voler smettere mai di borbottare.
– Mamma, che cos’è quello?
Chiesi a un tratto, con ingenuità, la voce ridotta a un sussurro, un po’ perché rapito dallo spettacolo cui stavo assistendo e in parte perché spaventato da quell’ignota presenza spaziale.
– Non lo so, figliolo, proprio non lo so…
La sua voce era calma e controllata ma intuii che anche lei temeva qualcosa. Io e mia sorella ci scambiammo uno sguardo complice leggendo ciascuno negli occhi dell’altra le medesime emozioni, sorpresa curiosità mista a paura destabilizzante.
Sembrava quasi come in quei film di fantascienza che la mamma non voleva che guardassimo in televisione perché, ce lo ripeteva sempre, ci avrebbero fatto venire gli incubi.
Ripensandoci in quell’istante, le diedi ragione e mi avvicinai un poco, solo per sicurezza. Timidamente allungai la mano per raggiungere la sua, senza però staccare mai lo sguardo dal cielo.
Ora, quello che credevamo un meteorite, non appariva più come un corpo roccioso. I vapori e il gas che lo avvolgevano si stavano via via dileguando mano a mano che questo planava sopra alla nostra città.
Osservandolo meglio, comprendemmo che quel misterioso corpo celeste non era composto di pietra e ghiaccio; non era nemmeno una cometa o un piccolo asteroide, come quello che, a scuola, ci avevano detto avesse estinto i grandi dinosauri della preistoria.
Appariva invece più simile a uno degli hovercraft che i grandi guidano per andare al lavoro, con un lungo muso piatto e schiacciato davanti, della ali tondeggianti ai lati e un grosso abitacolo nel mezzo. Solo che quello che stava levitando sopra alle nostre teste, a centinaia di metri di distanza da noi, appariva enormemente grande. Il cielo stesso sembrava ribellarsi alla sua presenza: anche se era notte, tutto si era fatto più luminoso e correnti d’aria impetuose vessavano la nostra città.
Osservando meglio, compresi che era quell’astronave ad emettere luce per via dei potenti propulsori che la spingevano e che, ora, dopo aver modificato la propria inclinazione fino a posizionarsi orizzontalmente sopra di noi, la sospingevano verso le montagne a nord della città.
Non potemmo fare altro che seguirla con lo sguardo, come piccole formiche che assistono impotenti al cambio di direzione di un gigantesco pennuto.
– Lo sapevo! Lo sapevo che sarebbero tornati!
Una voce carica di entusiasmo esplose alla nostra destra attirando l’attenzione di tutti noi.
Era quel matto di Phil, talmente appassionato di storie su alieni e altri mondi che era convinto che esistessero davvero altre forme di vita al di fuori del nostro pianeta, nello spazio o su altri sistemi stellari. Addirittura sosteneva che fossero già atterrati più volte anche nel nostro continente e che fossero i responsabili dei misteriosi disegni nel grano di cui, di tanto in tanto, avevano parlato alla televisione.
Ma la mamma ci aveva sempre detto che si trattava di burle, di bravate commesse da persone che non avevano niente di meglio da fare che ingannare la società e cucirsi storie interessanti addosso. Persone sole che volevano un po’ di attenzione. O soldi.
– Sono loro, sono tornati! Vengono per l’oro verde vi dico: è la verità, credetemi!
Scuotendo il capo per le farneticazioni del nostro vicino, mia madre ci strinse a sé, sollevata che l’avvistamento non si fosse rivelata una minaccia per noi o per tutti gli altri.
– Certo, Phil, come no! E se invece fosse stato un nuovo prototipo di velivolo militare?
Questa volta era la signorina Astrid a far sentire la propria voce acuta, sporgendosi appena dal terrazzo della sua villetta, dall’altra parte della strada.
– Già! Se fossero stati alieni, non ci avrebbero di certo ignorati: probabilmente ci avrebbero rapito o bombardati. Non lasciano mai testimoni e non viaggiano per distribuire la pace!
Anche Kato, un esimio docente del liceo cittadino, concordava con l’ipotesi della signora Astrid. Probabilmente più per schierarsi dalla sua parte e farle percepire una certa affinità più che per reale e autentica convinzione.
– Ma non capite: è proprio quello che vogliono che crediamo. Quell’astronave è un velivolo alieno, vi dico! Quella forma, i motori, la tecnologia. Non portava alcuna bandiera e …
– Ehi, come hai fatto a scorgerne una con questo buio? E’ notte Phil…
Sottolineò il professor Kato, mentre osservava in direzione della terrazza su cui stava la ragazza, scorgendo nel sorriso di Astrid un segnale di approvazione.
– Sì … cioè no, non l’ho vista, in effetti … ma questo non significa che io non abbia ragione! Sono qui per l’oro verde, sono venuti per quello. Credetemi!
Phil insisteva con la propria teoria e altri, che erano usciti all’aperto per osservare il volo di quella misteriosa astronave color antracite, si intromisero nella questione, ognuno cercando di dare una spiegazione a quanto avevano appena assistito. Io e mia sorella ci guardammo senza capire granché di ciò di cui gli adulti parlavano. Di tanto in tanto però gettavamo uno sguardo al cielo, giusto per controllare che non ve ne fossero altre in arrivo. Chissà da dove provengono, mi chiesi
– E cosa sarebbe questo fantomatico “oro verde”, Phil?
Nuovamente la signorina Astrid: incalzava il nostro vicino con malizia, più per schernirlo pubblicamente che per conoscere qualcosa di nuovo.
L’altro si aggiustò gli occhiali sul naso e raccolse le idee prima di parlare: erano tutti contro di lui, lo credevano un nerd inaffidabile e di certo lo avrebbero deriso qualunque cosa avesse detto. Forse avrebbe fatto meglio a tacere e a rinunciare, ma il suo orgoglio gli imponeva di diffondere un po’ di quelle conoscenze che i media tradizionali e le istituzioni tacevano alla gente comune.
– Non si sa ancora che tipo di materiale sia ma il cosiddetto “oro verde” è un minerale scoperto recentemente in alcune cave tra le montagne su, al nord. Si dice che sia particolarmente prezioso per le proprietà energetiche che possiede ma gli scienziati non hanno ancora individuato un modo per lavorarlo o trattarlo. Pensano però che, dopo le opportune analisi e rilevazioni, possa diventare una fonte energetica altamente efficiente. Secondo alcune teorie soppianterà altre forme di combustibili come il carbone o il petrolio. Che chiamano oro nero. E siccome possiede un’intensa colorazione verde fosforescente, ecco perché nel web tutti lo considerano “oro verde”.
Silenzio. All’improvviso tutti rimasero muti ad osservare Phil e a soppesare quanto aveva riferito loro, valutando le implicazioni e la plausibilità delle sue farneticazioni da nerd sfigato. Anche mia madre se ne stette immobile per un istante, riflettendo sul senso delle spiegazioni del nostro occhialuto vicino appassionato di storie fantastiche. Poi si voltò e ci sospinse verso casa.
– Personalmente non ho mai sentito nulla di simile alla radio o alla televisione. Forse esageri un po’ con i film di fantascienza o leggi troppi fumetti per ragazzi, Phil. – lo rimproverò.
– Anche secondo me: forse dovresti trovare un modo più sano per trascorrere il tempo. Alieni e oro verde! Che scempiaggini! – le fece eco Astrid.
– Ma è la verità! Dovete credermi!
Nessuno, invece, gli dava credito.
Con la coda dell’occhio, prima di entrare in casa, vidi la delusione dipinta sul suo volto: chissà, pensai, magari un po’ di ragione ce l’ha.

A bordo della LAST-EDEN-01, il comandante Jorgsen aveva appena ultimato di dare le disposizioni al proprio equipaggio. La meta del loro viaggio era situata più a nord, a circa venti chilometri di distanza dal centro abitato alieno sopra cui erano appena planati. Nelle precedenti comunicazioni avevano avuto segnalazioni della cittadina ma, considerando l’attuale livello tecnologico raggiunto dalla popolazione indigena, avevano ritenuto che un passaggio sopra ad essa non avrebbe costituito alcun pericolo. Né per l’equipaggio né per il carico che stavano trasportando.
Infine, dopo quasi venti minuti di volo, raggiunsero il sito prestabilito. I propulsori anteriori dell’astronave vennero azionati per arrestare il moto del poderoso velivolo mentre, in contemporanea, furono attivati gli stabilizzatori gravitazionali, necessari a mantenerla orizzontale.
Al termine della manovra, Jorgsen afferrò la propria ricetrasmittente e impartì l’ordine:
– Avviare procedura per l’apertura del portellone C02 della stiva.
Uno dei macchinisti ubbidì all’istante, digitando con velocità impressionante sul monitor touch screen collocato alla sua destra. Qualche istante dopo confermò il completamento dell’operazione.
Il comandante annuì, quindi comunicò il nuovo ordine.
– Dare inizio alle operazioni di scarico delle scorie radioattive.
All’unisono, il personale di bordo avviò la procedura per trasportare a terra i rifiuti tossici trasportati dalla LAST-EDEN-01. Come uno sciame industrioso, piccoli velivoli dalle forme squadrate iniziarono a fare da spola tra il portellone della stiva e il suolo del pianeta.
Nell’osservare il continuo via vai di navicelle che scendevano e abbandonavano tonnellate e tonnellate di scorie prodotte dalle centrali nucleari del loro pianeta d’origine e che erano stati incaricati di smaltire, un ufficiale di bordo intavolò una breve chiacchierata con il comandante.
Uno scambio fugace, giusto per ingannare il tempo fino a che non venissero ultimate le operazioni di scarico e per conoscere meglio il pensiero del suo superiore.
– Chissà cosa penseranno gli indigeni del fatto che stiamo trattando il loro pianeta come un’enorme discarica per materiale radioattivo …
Il comandante sospirò, quasi scocciato dalla presenza di Piotr: per qualche motivo quel tipo non gli andava a genio. Prima di esprimersi, valutò attentamente cosa rispondere: preferiva esser cauto ed evitare di prestare il fianco a un uomo ambizioso come lo era il suo ufficiale.
– Francamente mi spiace per loro e per il fardello che gettiamo sul loro futuro. Ma noi eseguiamo solo degli ordini, come si aspettano i nostri capi sulla Terra. Ed è esattamente ciò che faremo, negli interessi degli azionisti che rappresentiamo, prima, e dell’umanità, poi.
L’altro annuì soddisfatto; quindi tornò a scrutare il cielo notturno, osservando l’attività svolta dai suoi subordinati e intravedendo, giù in fondo, alcuni riflessi verdastri emessi dal materiale tossico che la LAST-EDEN-01 stava rilasciando.
In fondo, si ritrovò a pensare l’ufficiale, meglio qui che nella città in cui vivono i miei figli…

Note: L’idea per questo racconto proviene da riflessioni sul nucleare a seguito di una serata organizzata dalla lista civica “Il Paese che vogliamo” con cui collaboro, evento a cui ha preso parte don Albino Bizzotto e che ha avuto per tema il nucleare in Italia.
Chissà: magari uno scenario come quello descritto non sarà poi tanto lontano dalla realtà. Dopotutto, smaltire le scorie è uno dei problemi irrisolti legati all’utilizzo della tecnologia nucleare per la produzione di energia.
Oltre a ciò, l’incipit è riconducibile a un concorso letterario a cui intendevo partecipare e che prevedeva, appunto, di iniziare con un periodo prefissato. In realtà, non ce l’ho più fatta a prender parte alla selezione per mancato rispetto dei tempi di consegna. Però ho ugualmente approfittato di quanto scritto per un’altra selezione per un’antologia della Giulio Perrone editore, relativamente a racconti dedicati al “verde”. Ma non ho avuto molta fortuna.

Data di creazione : 18 ottobre 2010

Ultima modifica : 31 dicembre 2010

Racconto pubblicato sulle pagine dei seguenti portali web :

  • www.poetika.it
  • www.braviautori.com
  • vetrina.clubpoeti.it
  • Scrivendo
  • WeTales
  • MagraThea

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