Suicidarsi oggi

Introduzione

L’argomento non è dei più felici, me ne rendo conto, né posso parlarne con le parole di uno che ha vissuto l’esperienza da vicino. Ma quanto ho scritto nasce dal fatto che negli ultimi tempi è aumentato il numero dei suicidi tra i giovani. Tra questi, verso la fine di luglio, due ragazzi della provincia di Padova. Uno, suicidatosi a Limena (PD) dopo che gli erano stati trovati addosso 3 grammi di hascisc (non suoi tra l’altro) e uno qualche giorno dopo, nella stessa zona. Quest’ultimo era amico di un mio amico. Uno di famigli quasi, per lui. Uno che sembrava sereno, felice, senza problemi. E poi, improvvisa, la notizia del suicidio.

Quello che segue vuole essere una riflessione sul suicidio, sul perché si arrivi a tanto, soprattutto per un giovane del mio tempo. E’ chiaro che nella nostra società manchi qualcosa. Ma cosa? Qual è la molla che fa saltare il meccanismo, che porta all’autodistruzione? Si sente spesso parlare di male di vivere: ma cos’è questo male di vivere?

Ecco: da questi spunti e dai discorsi fatti una sera con il mio amico citato poche righe fa è nato quanto segue.

Inizialmente quello che avevo scritto era sotto forma di poesia, ma risultava troppo lunga e pesante. L’ho reso quindi in prosa. A modo mio, s’intende.

Prima di lasciarvi alle lettura voglio precisare che la mia è solo una riflessione: non ho la presunzione di comprendere i sentimenti di una persona che arrivi a suicidarsi, né il dolore dei suoi cari e dei suoi amici, non avendo mai sperimentato sulla mia pelle un simile dolore. Non voglio essere cinico, nelle mie parole e nella mia riflessione, solo cercare di capire nel modo più asettico possibile le ragioni di un simile gesto.

 

 

“I never thought I’d die alone I laughed the loudest whod have known?”

“Non avrei mai pensato di morire da solo Ridevo forte, chi poteva saperlo? “

Adam’ s Song – Blink 182 (1)

 

Mi hanno detto che si è ucciso gettandosi da un ponte.

Aveva 19 anni.

Io non lo conoscevo.

Per te invece era un amico, uno di famiglia.

Ho visto come soffrivi.

Nelle tue parole il dubbio: sulla persona che credevi di conoscere, su te stesso, sulla vita, sulla fede, su tutto questo mondo cui stiamo contribuendo.

Se Dio esiste, perché permette questo? – dicevi.

Non è questo il modo, credimi, di vivere la cosa.

Fatti forza.

Hai detto che aveva scritto una lettera: quasi tutti, prima del gesto disperato scrivono. Scrivere non è come parlare.

Il foglio bianco non è come le persone: non chiede niente, non giudica: ascolta e tace. Soprattutto tace, quando avresti invece bisogno d’altro.

Prima di morire, nella sua ultima lettera, aveva scritto di essere stanco, stanco di vivere.

Questo non lo comprendo: cosa significa?

Tanti, tra coloro che si uccidono, sono stanchi di vivere.

Ma cosa significa essere stanchi della vita?

Quando sono stanco a causa del lavoro, è perché ho lavorato molto, ho faticato e ho sudato.

Quando sono stanco di dormire e di restare a letto, è perché ho riposato troppo a lungo e sento il bisogno di alzarmi.

Quando sono stanco di stare seduto a tavola e di mangiare, è perché ho mangiato troppo.

Se sarò stanco della vita sarà perché ho vissuto troppo e le esperienze da me vissute non hanno dato risposte a ciò che cercavo.

Forse è così?

Oppure no?

Di sicuro, a 19 anni, non hai vissuto troppo.

Allora cosa significa essere stanchi della vita, a quell’ età?

A portarti al suicidio sono allora l’insofferenza per la vita, la frustrazione, la noia e il dolore.

Forse è così.

Forse non è così.

Il suicidio, mi spiace ammetterlo, è però il fallimento dell’individuo.

Il fallimento di un individuo, disperato e lacerato dal dolore d’accordo, che porta alla creazione di nuovo dolore nelle case dei suoi cari e dei suoi amici.

Il fallimento di un individuo, però, non è un fatto slegato da tutto il resto: probabilmente è un sintomo, la punta di un iceberg ben più grande.

Il fallimento di un individuo è il fallimento di un sistema.

La vita è complessa, è un caleidoscopio di situazioni, di esperienze e di scelte. Impossibile descriverla, impossibile comprenderla a fondo.

Semplicemente va vissuta.

Inevitabilmente saprà sorprenderci, nel bene e nel male.

Le domande e i dubbi che sorgono spontanei pensando alla vita in generale sono davvero inimmaginabili.

Sai, mi viene in mente Pamplona, quando liberano i tori e la gente corre per le strade della città cercando di non farsi travolgere.

Tutta quella gente inseguita dai tori: perché corre?

Potrebbero semplicemente fermarsi.

Potrebbero restare in casa e non uscire affatto.

Potrebbero starsene a guardare gli altri, rimanendo discosti.

Potrebbero mettersi in salvo entrando in qualche casa, o cercando riparo tra gli edifici.

Ma non lo fanno: semplicemente sono sulla strada e corrono.

Ecco, quei tori forse sono la vita, con le sue contraddizioni e i suoi quesiti, le sue scelte e i suoi impegni.

Sono davvero troppi gli interrogativi: allora basterebbe non porseli, e per non porseli esistono le scappatoie.

Ma non è questa la strada.

Infatti, non ho mai visto i tori restarsene fermi, per le strade di Pamplona, né quei pazzi – che a vederli da distante si direbbero pazzi, la stessa prospettiva che avremmo osservando una qualsiasi usanza di un popolo differente dal nostro – smettere di correre.

No, quella corsa va fatta.

Io non conoscevo il ragazzo che si è suicidato, e non conoscevo nessuno che si sia tolto la vita. Le mie, forse, sono parole presuntuose, che non hanno sapore, ma so che il suicidio non è mai la scelta giusta.

Il dolore e la frustrazione sono insopportabili e per ognuno esiste un limite: oltre quella soglia non lo so cosa accada dentro al cuore di una persona.

Oltre la soglia di sopportazione, qualcosa si rompe, qualcosa si infrange.

E allora subentra il desiderio di rinunciare.

Ma il suicidio non è la strada: un suicida è una persona che rinuncia alla vita unicamente basandosi sulla strada percorsa. E nessuno, nessuno sa cosa riserva il futuro, nessuno sa qual è la strada che dovrai ancora percorrere, nessuno sa come andrà a finire la storia. La storia con la S maiuscola, e la storia che invece ti appartiene.

Con il suicidio, ci si preclude la possibilità di vedere quello che c’è oltre la ripida salita.

Il suicidio è la rinuncia a lottare, a credere, a vivere.

E’ la rinuncia a se stessi.

E’ arrendersi al vuoto e a una crisi impalpabile che sembra vivere ovunque, celata alla vista, silenziosa e letale.

Gli animi sensibili la sentono prima degli altri, percepiscono la brezza che sussurra la crisi..

Gli animi sensibili sono capaci di grandi voli eppure hanno il cuore di un bambino.

La loro sensibilità è la loro condanna: la loro anima è di cristallo, superba e fiera, eppure così fragile e delicata.

Sono le persone cui prestare maggiore attenzione.

Sono le persone che meglio sanno comprendere gli altri.

Sono le persone che vivono a fondo il dolore.

Il dolore: ecco un grande mistero.

Forse è questa la chiave di tutta la mia riflessione.

Forse è il dolore, nelle sue innumerevoli forme, a portare alla morte volontaria.

Cosa sia il dolore, grosso modo, ognuno lo sa.

Ma perché esista è un mistero.

Ma d’altronde…non conosco il senso nemmeno della vita.

Forse è il cubo. (1)

Forse è un errore.

Forse è una bugia.

Non lo so, ora non lo so.

Ma se il dolore esiste, un motivo ci dev’essere senz’altro. Questo, questo io credo. Magari mi sbaglio, ma credo che ogni cosa, dalle stelle alla polvere, abbia un ruolo ben preciso.

Forse è solo un memento, un modo per rammentarci la nostra fragilità.

Per rammentarci che gli altri necessitano del nostro aiuto.

Per rammentarci che dobbiamo appoggiarci agli altri nei momenti di difficoltà.

Un’immagine del dolore che conservo è il primo pianto di un bambino, il pianto che annuncia la nascita mentre l’aria brucia nei polmoni del piccolo neonato.

Ecco: questo è il dolore.

E subito dopo giunge l’abbraccio, il materno calore dell’amore.

E spesso accade questo nella vita.

Siamo soli, ad urlare il nostro dolore. Almeno in apparenza: vicino c’è qualcuno pronto a consolarci. Solo, alle volte, non riusciamo ad accorgercene.

E urlare non significa necessariamente farsi comprendere. Certe persone urlano il proprio dolore con gli occhi. Altre con il silenzio.

Altre esternano ciò che sentono in altro modo, a volte isolandosi, a volte bucandosi, a volte ricorrendo alla violenza.

Rimane il fatto che qualcuno è sempre pronto ad abbracciarci, riscaldandoci con una serena e tacita comprensione.

Certo, le mie sono belle parole. Ma la realtà può apparire diversa.

Ecco un altro problema.

Non ho tuttavia accennato al tempo che trascorre dal primo vagito all’abbraccio.

Non ho mai nemmeno detto che quell’abbraccio arrivi da una persona a noi nota.

Può darsi che ad abbracciarci non ci sia nessuno, solo la nostra fede.

Può darsi che ci siano persone che continuamente ci abbracciano, a modo loro, senza che noi ce ne accorgiamo.

Anche Coelho lo diceva: ci sono persone che ci amano, ma che semplicemente non sanno come dimostrarlo.

Io non ho le risposte alle mie domande.

Io non lo so quanto grande possa essere il dolore che una persona può portarsi dentro.

Ma il suicidio non è la strada.

E’ la via più semplice, forse, ma non è la soluzione.

E’ il porre fine al dolore di qualcuno ponendo le basi per il dolore di qualcun altro.

E poi: il fatto che sappiamo parlare non è forse un modo per combatterlo il nostro dolore?

In teoria.

Nella pratica, ci stanno insegnando a vergognarci dei nostri errori, dei nostri difetti e delle nostre sconfitte.

A tenerci dentro ciò che il gruppo non tollera.

A inseguire obiettivi che non vogliamo.

A confrontarci con gli altri solo nel considerare i nostri successi e le nostre vittorie.

Ma noi siamo molto di più.

Noi siamo anche i nostri difetti e le nostre debolezze. Siamo le persone magnifiche che si pettinano, si truccano e si vestono bene per uscire la sera, e quella specie di subumani nei giorni di influenza che a stento si riconoscono di fronte allo specchio.

Siamo le persone che scherzano e affrontano il mondo con serietà.

Siamo le persone che soffrono e vivono per l’amore.

Siamo al contempo il meglio e il peggio di noi stessi.

Siamo persone che sorridono e che piangono.

E invece ci stiamo ingannando, ci stiamo sminuendo, ci stiamo svendendo.

Tutto questo è la crisi dei nostri giorni.

Una gioventù intelligente, sensibile e generosa, dannatamente generosa, che non sa credere in se stessa.

Ché il futuro siamo noi, e non credere in noi comporta non credere al futuro.

Non credere alla possibilità di cambiamento.

Non credere che il dolore sia solo una stagione, maledettamente lunga e fredda, ma inesorabilmente destinata a finire.

Credere, comporta grande coraggio.

Credere, comporta speranza.

Credere, in noi, negli altri e in Dio, costa molto sacrificio.

Ma questa è la strada.

Questa la via della vita.

Il suicidio, purtroppo è solo una grave tragedia.

Io non ti conoscevo, né conosco persone che si siano tolte la vita.

Tuttavia credo che le loro morti abbiano avuto un senso: forse hanno permesso ad altri di cambiare e di rinnovarsi attraverso il dolore.

Forse, il loro gesto disperato ha posto il seme del dubbio nelle menti di molti. E la strada del dubbio porta solo alla ricerca di risposte.

Io non comprenderò mai ciò che tu provavi, ma mi auguro solo che tu riposi in pace. Sono certo che la tua morte abbia avuto un senso.

Sono certo che la tua vita, seppur breve, abbia avuto un senso.

Di là del fiume che separa l’orizzonte vi è la pace.

Mi dispiace solo che nessuno si accorga di quanti soffrono come tu soffrivi dietro una maschera di ordinaria serenità.

Purtroppo, è dentro il cuore delle persone che albergano gli abissi più oscuri e profondi.

E al contempo, dentro il cuore delle persone trova spazio la luce più calda e intensa.

 

 

Note:

(1) : mi riferisco al film CUBE del 1999

 

Data di creazione : 06 Agosto 2004

Ultima modifica : 05 Gennaio 2005

 

Racconto pubblicato sulle pagine dei seguenti portali web :

  • www.ewriters.it
  • www.francamente.net
  • www.liberodiscrivere.it
  • www.poetare.com
  • www.scrivendo.it

 

 

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