Sfumature di grigio

Dopo di lui entrarono solo una mamma con il suo bambino, Gabriele. Quest’ultimo gli rimase impresso perché per tutto il tempo non gli staccò gli occhi di dosso, giusto il tempo in cui gli venne tolto il giubbetto. In quella stanza, dove tutto e tutti erano grigi e uniformi, persino le piante dalle foglie immense posizionate negli angoli, lui rappresentava una sorta di eccezione.
Il bambino se n’era accorto e, per questo, continuava a scrutare quel signore tutto imbacuccato e intabarrato: tra grossi occhialoni vintage, cappello ben calato sulla testa, bende e sciarpa, di lui non si scorgeva affatto il volto. Anche le mani erano ricoperte da spessi guanti di flanella. Sembrava una mummia grigia, immobile e spazientita, in attesa del proprio turno dal medico.
I minuti trascorrevano pigri e Gabriele non staccò mai gli occhi di dosso a quello strano individuo.
« Che ha quel signore? », domandò alla mamma.
Ma la signora sfoggiò un sorriso di circostanza, più per cortesia che altro, e provò a distrarlo con uno dei giornaletti disposti sul tavolo da fumo. Non stava bene immischiarsi dei fatti altrui, soprattutto degli sconosciuti e dei più sfortunati.
Il bimbetto però non si fece fregare. Rispetto a quei depliant grigiastri dai toni altisonanti e privi di immagini buffe o curiose preferiva di gran lunga quella specie di bandito. Nella sua testa di bimbetto aveva infatti preso piede quell’ipotesi, che vestisse così per non farsi riconoscere e ingannare la brava gente.
« Perché sta tutto coperto, mamma? », chiese anche.
In effetti, rispetto a tutti gli altri, era l’unico abbindato a quel modo. Le due vecchiette che sedevano nella stanza, attempate e un po’ malate, dall’aspetto dimesso e mediocre, tutto sommato avevano un aspetto comune. Anche l’omone grasso grasso dai pantaloni lisi e strappati che sedeva nell’angolo lisciandosi i baffi grigi mentre guardava il cellulare non era nulla di straordinario, se non per il respiro lento e affannoso.
Solo il bandito aveva un’aria tronfia e sorniona, di chi ha afferrato qualche segreto della vita. Se ne stava fermo immobile, seduto con le mani in tasca e i gomiti larghi sulla poltroncina accanto alla finestra che dava su un cielo fuligginoso e un mondo del medesimo colore. Ma sfumato, mai omogeneo. Tonalità diverse per case e automobili, più scuro per il tronco degli alberi e più chiaro per le foglie. Anche i cani avevano il pelo grigio fumo, come di colore grigio erano gli occhi di Gabriele che, vinto il coraggio, si era avvicinato a quello strano figuro per capirne di più.
Si presentò e l’altro rispose con un saluto, sorridendo divertito dietro la sciarpa e l’alto bavero del cappotto.
Poi la porta si aprì all’improvviso, i convenevoli mentre il medico congedava il paziente appena visitato, un tizio allampanato e dall’aria stanca, con i capelli antracite e un evidente fastidio alla spalla che continuava a massaggiarsi.
« Il prossimo », invitò il simpatico dottore di famiglia, un uomo bonario e con sottili occhialini sul naso.
Lo sguardo di tutti si posò sull’individuo accanto alla finestra.
In realtà era anche un bell’uomo, di media statura e dal viso vispo e scanzonato, appena appena sporcato da una barba che stentava a crescere. Era pure giovane e praticava sport ma, vedendolo acconciato in quel modo, nessuno se ne avvide.
Lo stesso dottor Udinesi non seppe indovinare chi si celasse sotto a quegli strati e strati di tessuto grigio platino. E un po’ si incupì esibendo un’espressione accigliata mentre, per darsi un tono, si stirava con la mano il lungo camice grigio pietra e con la destra lo invitava ad accomodarsi nell’ambulatorio.
Poi furono soli, l’uno dirimpetto all’altro.
Il medico prese posto e appoggiò i gomiti sul tavolo, richiamando le mani a pugno sotto al mento. Aveva folte sopracciglia scure, Merigo, e occhi piccoli ma attenti, indagatori, allenati da almeno trent’anni di professione sanitaria. Possedeva anche un’ottima memoria e ricordava il nome di tutti i suoi pazienti.
Ma quello seduto di fronte a lui non riusciva proprio a capire chi fosse.
Sospettava però che si trattasse di un caso assai fuori dall’ordinario, probabilmente un’infezione esotica di natura cutanea. O, forse, chi sedeva dinnanzi a lui era semplicemente una persona dai modi eccessivamente cauti, un ipocondriaco paranoico. Ce n’erano tanti di malati immaginari che gli capitavano per le mani, gente convinta di avere chissà quale malanno mentre godevano di una salute di ferro. Persone che molto spesso emulavano l’eccentrico vezzo di alcune star dello show business, più per reale paura di infezioni e contaminazione.
« Mi dica … », fu allora che si accorse di non sapere se il paziente fosse uomo o fosse donna.
L’altro, tentennò, incerto sul da farsi.
« A dire il vero non so da dove cominciare », prese tempo Walter. Che non era né un bandito né un maniaco ossessionato dalla paura di ammalarsi.
Temeva però il giudizio altrui, come tutti; aveva paura di quello che avrebbero pensato alla vista di lui, del chiasso e delle reazioni che avrebbe suscitato.
Merigo sorrise, paziente, e si accarezzò il mento.
Non aveva la barba e la pelle grigio nuvola appariva tonica e solare, indizio di una vita sana e di un uomo vigoroso nonostante avesse da poco passato la boa dei sessantatre.
« Cominci dal principio allora », suggerì mentre provava a indovinare con chi avesse a che fare. La voce del paziente era alterata, usciva distorta dal contatto con la sciarpa che teneva stretta stretta e avvolta tutt’attorno al volto. E gli occhialoni enormi e scuri non lo aiutavano affatto a ricavare indizi dalla forma del volto e dall’intensità dello sguardo.
Walter ci rimuginò un poco, infine sospirò.
« Sinceramente non lo so quale sia il principio di questa cosa, se sia un’intossicazione o una conseguenza di qualche imprudenza al lavoro. Ha cominciato ieri ma oggi è peggiorato. Altrimenti non sarei qui, non crede?».
Il medico annuì, sebbene ancora incerto.
Dal canto suo, Walter non era solito coprirsi a quel modo e non aveva di certo realizzato di non essersi presentato o esser stato identificato.
Piuttosto raccontò di come, il giorno prima, avesse sentito prudere la pelle della fronte e del braccio. Si era grattato, aveva controllato, ma niente. Un suo collega gli aveva semplicemente fatto notare che in effetti, sì, la fronte pareva più scura del solito, di una tonalità quasi grigio-granito, meno luminosa e chiara del resto. Anche Lisa, in segreteria, aveva confermato quella sensazione, mentre prendeva atto dell’uscita anticipata dell’impiegato amministrativo.
Poi gli era salita pure la febbre, raccontò Walter, e la notte era stata un calvario di sudorazione e palpitazioni e incubi e angosce. Ma al mattino pareva tutto a posto, si sentiva tranquillo, pacifico e in forma come al solito. Niente febbre, nessun malessere, niente di niente.
« … solo che, quando mi son guardato allo specchio ero … »
Si irrigidì, non trovando le parole.
« Era … ? »
« Ero diverso » concluse semplicemente.
Merigo prese atto, e attese. Il resto sarebbe arrivato a breve.
« Non che questo chiarisca poi molto, sa. Non potrebbe essere un po’ più preciso? »
Walter non rispose e il medico dedusse che lo strano abbigliamento con cui lui, perché era chiaro che di un uomo si trattasse, si era presentato in ambulatorio c’entrasse con la patologia che lo affliggeva.
« È per questo che è coperto così tanto? Nemmeno le mani o il naso sono scoperti. La prego, deve darmi modo di comprendere altrimenti non potrò aiutarla … ».
Il medico si era già figurato alcune ipotesi, ma comprese di dover dare tempo al proprio paziente.
Lui, di contro, allungò una mano, un moto lento e mirato ad afferrare una delle penne che stavano sul bordo della scrivania. Non per reale necessità ma per distrarsi un poco, focalizzare la mente su qualche dettaglio insulso. Lo faceva spesso ogni qualvolta qualcosa lo impensieriva, un modo come un altro per far chiarezza e prender tempo prima di una decisione importante. Rigirò la stilografica grigio lucente tra le mani rese tozze da quei guanti pesanti.
« Si spieghi meglio, per favore », intervenne di nuovo Merigo, cercando di essere persuasivo.
Il ragazzo parve convincersi: smise di cincischiare con la penna e lo fissò negli occhi. O almeno questa l’impressione che diede mentre scrutava in direzione del medico.
Quindi spostò all’indietro la sedia e si alzò, pronto a rivelare quale fosse il male che lo attanagliava.
Cominciò con il togliersi il berretto scuro, quindi i pesanti occhialoni vintage, poi sbottonò il cappotto mentre, seduto e meravigliato, Merigo lo osservava con interesse clinico.
Walter non si fermò, si tolse la sciarpa, il cappotto, il maglione, persino i pantaloni, la maglietta fino a che rimase praticamente in mutande.
« Vede: sono diverso! », asserì.
Dal suo punto di vista era tutto molto chiaro ed evidente, anche se non conosceva la causa di tale mutazione.
Il medico invece si alzò dalla sedia, sgomento. Non aveva mai visto o letto di nulla di simile.
Adesso lo stava praticamente squadrando centimetro per centimetro, osservandolo a debita di stanza, puntellato sulla scrivania e con la bocca spalancata per la sorpresa.
« Walter? », domandò riconoscendolo finalmente.
Lui annuì, con una smorfia di imbarazzo.
« Ma com’è possibile? »
« Questo dovrei chiederlo io a lei, dottore », sorrise Walter, un po’ a disagio e deluso per la reazione del medico.
Da parte sua, Merigo aggirò la scrivania portandosi accanto al paziente. Gli prese un braccio per tastarlo ed esaminarne l’epidermide più da vicino. Lasciò scivolare la mano ricoperta da un guanto in lattice grigio fossile sulla pelle del ragazzo, pizzicando e tastando, incredulo.
Poi esaminò la faccia, il collo, il torace. Si piegò sulle ginocchia per tastare la muscolatura delle gambe salendo fino a che non incontrò il tessuto dei boxer color antracite. Quindi alzò lo sguardo.
Walter si irrigidì e le sue guance si infiammarono di imbarazzo.
« Anche … »
« Lì sotto? »
Merigo annuì, serio.
« Sì, anche lì sotto. Come vede, sono tutto così ora. »
Il ragazzo appariva infatti di una nuova e sconosciuta sfumatura di colore. Non era niente di simile al grigio, l’unica tonalità conosciuta e onnipresente.
La sua pelle – ma anche la lingua, i capelli, persino l’iride – aveva un colorito differente. Né più chiara né più scura: diversa. E a ben guardare emetteva addirittura una leggera luminescenza, quasi fosse un neon appena spento.
« Com’è possibile? »
Il medico si portò una mano alla tempia, grattandosi per concentrarsi e farsi venire qualche idea.
Era visibilmente scosso e confuso, eppure gli occhietti grigi continuavano a studiare e analizzare. Da qualche parte, in cuor suo, sapeva di esser di fronte a qualcosa di unico che, forse, andava gestito con la debita attenzione. Forse poteva addirittura farsi un nome grazie a questa scoperta.
« Non lo so, dottore, non lo so davvero. Non ho assunto farmaci, non ho maneggiato sostanze tossiche … in fondo, cavolo, lavoro in amministrazione, tutto il giorno a far di conto e verificare anagrafiche clienti. Mica me ne sto a contatto con materiali strani e cancerogeni. Insomma non ne ho la minima idea. È successo. E la cosa … mi spaventa », ammise « Mi spaventa molto a essere sincero. »
In effetti il ragazzo era di un colore completamente diverso rispetto a tutto ciò che aveva attorno.
A cominciare dalla parete, dalla scrivania, dal lettino e dalla carta distesa sopra di esso per questioni igieniche. Era qualcosa di differente, al quale il dottor Udinesi non sapeva dare risposta.
Ne discussero un bel po’, Merigo cercò di farlo ragionare, di imporsi per il bene del paziente e per limitare potenziali contagi. Ma alla fine fu costretto a capitolare: di farsi ricoverare Walter non ne voleva proprio sapere e, non essendo evidente il tipo di pericolo cui potesse dare luogo essendo la sua singolare malattia praticamente sconosciuta, se ne tornò a casa propria. Si sarebbero risentiti presto, anzi « …verrò domani a farle visita. Contatterò qualche mio collega, qualche specialista che possa aiutarci a capire di cosa si tratti. Ma la prego, non si avvicini a nessuno, e non si allontani dalla città. Potrebbe essere pericoloso. Dovrebbe farsi ricoverare come le ho suggerito. La prego mi dia » il dottor Udinesi stava ancora parlando mentre il ragazzo si chiudeva alle spalle la porta grigio acciaio.
Non era andata come si era aspettato.
Cosa che l’aveva lasciato frustrato, oltre che preoccupato.
Soltanto il piccolo Gabriele lo salutò mentre se ne andava dall’ambulatorio: gli altri pazienti, captati solo pochi frammenti del commiato, osservavano quello strano individuo tutto intabarrato con sospetto e apprensione.
Le restanti ore della giornata Walter le trascorse al computer, cercando qualche risposta nel web. Ma si arrese di fronte all’impossibilità di trovare indizi e, soprattutto, di fronte all’evidente carenza linguistica per descrivere la colorazione che ora possedeva. Ogni oggetto, ogni immagine che lui conoscesse, persino ogni persona appariva di un solo unico colore ripetuto all’inverosimile e con diverse tonalità. Sfumature più accese o più spente, maggiormente vivaci o più scure.
La sua epidermide invece aveva assunto una diversa colorazione. Guardandosi le dita, esaminandosi il volto, persino nel reggersi il pene per urinare sentiva quasi una sensazione di alienazione dal proprio corpo. Eppure era pur sempre lui.
Quella notte, con il favore del buio, quando tutte le luci erano spente, si prese il rischio di sorseggiare del brandy sul terrazzo. Mani e viso rilucevano alla luna piena emettendo un tenue bagliore di una tonalità che, solo qualche giorno più avanti, avrebbe scelto di chiamare “blu”.

Data di creazione : 08 gennaio 2016

Ultima modifica : 31 ottobre 2016

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